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La responsabilità medica. I consigli dell’odontologo forense: puntare su una accurata documentazione
[mercoledì 6 luglio 2011]

La sentenza con la quale la Corte di Cassazione ha condannato un dentista al risarcimento dei danni per un intervento implantologico non riuscito riporta in primo piano fino dove arriva la responsabilità del professionista. Sull’argomento abbiamo chiesto un parere al dott. Giulio Pecorelli odontologo forense, odontoiatra libero professionista in Pioltello (MI).

“Dalla motivazione espressa dalla Corte emergono due aspetti fondamentali che spesso si ritrovano in sentenze relative a  responsabilità professionale odontoiatrica:

·         l’onere della prova è in capo al professionista (ovvero è lui che deve dimostrare di aver operato diligentemente o, come nel caso specifico,  che si è trattato di una situazione di “particolare difficoltà”;

·         la sempre meno frequente applicabilità dell'art. 2236 c.c. (Speciale difficoltà).

Come noto l'art. 2236 c.c. (Responsabilità del prestatore d'opera) stabilisce che, nel caso di prestazioni di particolare difficoltà, l'odontoiatra risponderà per danni solo nel caso di colpa grave (o dolo). In sostanza la norma pone dei limiti alla risarcibilità dei danni in capo al professionista ove sussistano due condizioni:

·         la prestazione sia di particolare difficoltà;

·         la colpa possa essere qualificata come lieve e non grave.

La giurisprudenza ha poi limitato l'applicazione di tale norma alle ipotesi di imperizia. Tale norma non ricorre pertanto con riferimento ai danni causati per negligenza o imperizia, ma soltanto per i casi implicanti la risoluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà che trascendono la preparazione medica o non sono ancora sufficientemente studiati dalla scienza medica (vedi Cass. 4152/95; 11440/97;4852/99). La norma risulta, di fatto, quasi sempre disapplicata. Si tratta, quindi, di una linea difensiva che non sortisce, per i motivi meglio analizzati di seguito, quasi mai risultati positivi. Infatti i Giudici tendono a considerare molto (troppo) spesso la non sussistenza della “particolare difficoltà” e, qualche volta, ove si rilevi l’effettiva complessità della  prestazione a fronte di un insuccesso professionale sanciscono, comunque, la responsabilità dell’odontoiatra per imprudenza (come a dire che, visto che l’odontoiatria è prestazione per lo più elettiva, se la prestazione si presentava complessa non andava erogata).

Nella responsabilità professionale medica (responsabilità civile), il rapporto medico-paziente tradizionalmente è di tipo contrattuale, il paziente è tenuto solo a dare prova dell’esistenza del contratto, mentre il medico dovrà dimostrare che i danni lamentati non sono imputabili alla sua condotta (giurisprudenza pacifica dopo la Cass.13533/01). Tale dimostrazione può avvenire solo grazie ad un diligente processo documentale effettato e prodotto dal professionista.

Oggigiorno, con le conoscenze, le tecniche diagnostico-terapeutiche, i materiali a disposizione, l'esperienza clinica ed il continuo aggiornamento cui siamo tenuti a sottoporci, l'implantologia associata alla protesi, come tutte le altre branche odontoiatriche, rappresenta, salvo ormai pochi casi particolari/selezionati, una pratica  routinaria.

Nel caso, invece, il professionista , a fronte di una diligente preliminare fase valutativa diagnostica che tenga conto oltre che dei rischi anche delle richieste e delle aspettative del paziente, non si sentisse di intraprendere una particolare terapia (scelta dal paziente magari fra le alternative prospettate) dovrà necessariamente astenersi, delegare la prestazione ad altro collaboratore/consulente specialista. Per tali motivi nel momento in cui viene intrapreso dal professionista un particolare tipo di approccio terapeutico difficilmente si potrà invocare poi la “speciale difficoltà” soprattutto se non è avvenuto a monte un diligente studio preliminare del caso, a meno che di fronte ad un reale piano terapeutico complesso, con eventuali alternative terapeutiche non gradite dal paziente, che sia stato programmato in maniera corretta  previa documentazione di ogni fase dell’iter clinico attraverso un congruo processo informativo, in mani competenti, si possa dimostrare poi che siano subentrate delle complicanze inaspettate o comunque elementi avversi le cui percentuali di subentro erano state comunque ridotte, che abbiano pregiudicato in parte o in toto la riabilitazione. In questo caso il paziente motivato e consapevole, perchè adeguatamente coinvolto, della portata dell’intervento accetterà di più eventuali insuccessi. 

Pertanto  non si potrà più  cercare di allontanare/limitare la responsabilità professionale medica  addossandola a cause di forza maggiore, in quanto l'art. 1176 c.c. (“Diligenza nell'adempimento. “Nell'adempiere l'obbligazione  il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia”) sottolinea che l’ approccio diagnostico-terapeutico (oltre che quello interpersonale) al paziente dovrà essere il più diligente possibile, fornendo al destinatario delle cure le regole dello stato dell'arte, come peraltro evidenziato nel  Codice di Deontologia Medica.

Concludendo,  il ruolo fondamentale della documentazione dal punto di vista clinico, deontologico, giurisprudenziale e medico legale deve indurre a considerare la medesima un fisiologico e imprescindibile momento della attività professionale, rappresentando la prova ineccepibile del continuo dialogare con il paziente, indispensabile per garantire quella fiducia che costituisce spesso l'elemento portante del successo. In questo modo si avrà la certezza, attraverso una traccia tangibile, di poter dimostrare, qualora venisse richiesto, di aver operato in modo serio e diligente, con il coinvolgimento del paziente in ogni fase del suo percorso clinico.

 


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